Sentenza n. 329 del 1990

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SENTENZA N.329

ANNO 1990

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA, Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, quinto comma, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione), convertito con modificazioni nella legge 25 marzo 1983, n. 79, e dell'art. 21, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1983, n. 730 (Legge finanziaria 1984), promosso con ordinanza emessa il 15 maggio 1989 dalla Corte dei conti sul ricorso proposto da Chiuchiarelli Izsak Maria Cristina, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 1990 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1990.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 maggio 1990 il Giudice relatore Gabriele Pescatore.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza in data 15 maggio 1989, la Corte dei conti ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma quinto, d.l. 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro), convertito in legge 25 marzo 1983, n. 79, e dell'art. 21, comma undicesimo, legge 27 dicembre 1983, n. 730 (Legge finanziaria 1984), nella parte in cui dispongono che le pensioni attribuite ai sensi del terzo comma dell'art. 42 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, siano differite al termine del periodo di tempo pari all'aumento di servizio utile concesso ai fini del conseguimento dell'anzianità minima.

La questione si é posta a seguito del ricorso proposto da Maria Cristina Chiuchiarelli Izsak, che agiva per ottenere di essere ammessa al godimento della pensione con effetto dalla data di collocamento in quiescenza.

La Chiuchiarelli - osserva la Corte - presentò domanda di dimissioni, con i benefici di cui all'art. 42, terzo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, in data 18 gennaio 1983, fissandone l'effetto dall'1 ottobre 1985, con la conseguenza che alla sua posizione pensionistica si applicano le modifiche legislative in seguito intervenute.

Orbene, l'ultimo comma dell'art. 10 del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, stabilì che la decorrenza della pensione attribuita successivamente alla data di entrata in vigore del decreto stesso, in forza dell'art. 42 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, fosse differita al termine dei periodo di tempo pari all'aumento di servizio utile concesso, ai fini del compimento dell'anzianità minima, ai sensi del terzo comma del richiamato art. 42. In sede di conversione (legge 25 marzo 1983, n. 79) fu data la possibilità, al personale che anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto n. 17 avesse fatto domanda di dimissioni, con decorrenza a far tempo dalla data stessa, di chiedere la revoca delle dimissioni, se ancora in servizio.

Successivamente, con gli ultimi commi dell'art. 21 della legge 27 dicembre 1983, n. 730 (finanziaria 1984) fu stabilito che per il personale che avesse presentato domanda di dimissioni anteriormente al 29 gennaio 1983 per l'attribuzione dei beneficio di cui all'art. 42, terzo comma, o all'articolo 219, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, e che, alla data di entrata in vigore della legge, era ancora in servizio, trovasse applicazione il differimento della decorrenza della pensione, previsto dal quinto comma dell'articolo 10 del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1983, n. 79.

Al personale di cui al precedente comma era tuttavia data facoltà di chiedere, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, la revoca della domanda di dimissioni.

Il disposto differimento della pensione risulterebbe tuttavia di dubbia costituzionalità.

É ben noto - osserva il giudice rimettente - che la Costituzione, "oltre a riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" (art. 29), prevede che la Repubblica agevoli "con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi" e protegga "la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo" (art. 31); disponendo, altresì che "le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della essenziale funzione familiare (della donna) e assicurare alla madre del bambino una speciale adeguata protezione" (art. 37).

In applicazione di tali principi, il legislatore ordinario ha posto svariate disposizioni per consentire alla donna lavoratrice la cura della famiglia e della prole, e non certo per precostituire in suo favore posizioni di vantaggio o di privilegio. Tra queste previsioni andrebbe annoverato anche 1'art. 42, terzo comma, del TU. n. 1092.

Viceversa, in un'ottica riduttiva e demagogica, anzichè promuovere l'estensione del beneficio a chi ne era dei tutto escluso, si é preferito attivarsi per comprimerlo e limitarlo con la penalizzazione del differimento (che si aggiunge a quello della riduzione della indennità integrativa speciale, se la domanda di dimissioni é successiva al d.l. n. 17 del 1983, e alla sospensione dei godimento della pensione nell'ipotesi di cui all'ultimo comma dell'art, 10), dimostrando così per la donna dimissionaria ex art. 42, terzo comma, uno sfavore ancora maggiore di quello manifestato verso gli altri soggetti anticipatamente collocati a riposo.

L'art. 10, quinto comma, del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, nella legge 25 marzo 1983, n. 79, e l'art. 21, undicesimo comma, della legge 27 dicembre 1983, n. 730, violerebbero quindi gli artt. 31 e 37 della Costituzione.

Sotto altro profilo - prosegue il giudice rimettente - non può non ritenersi che le norme suddette violino anche l'art. 36, primo comma, della Costituzione. Ed invero, durante tutto il periodo di differimento, alla donna dimissionaria - non più impiegata e non ancora pensionata - non vengono erogati nè stipendio nè pensione con conseguente pregiudizio economico della ex dipendente e della di lei famiglia, che subiscono una drastica riduzione se non un azzeramento del loro reddito normale.

2.- L'ordinanza é stata ritualmente comunicata, notificata e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, del 21 marzo 1990.

3.- É intervenuto il Presidente dei Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'infondatezza della proposta questione.

La norma censurata - si legge nell'atto di intervento - é pienamente legittima e in particolare non contrasta con gli invocati artt. 31, 36 e 37 della Costituzione.

Proprio in ossequio a tali prescrizioni costituzionali, anzi, nell'art. 10 impugnato venne introdotto il comma sesto (ribadito successivamente dall'art. 21, comma dodicesimo, della legge finanziaria 1984), il quale prevedeva la facoltà di chiedere la revoca delle dimissioni anche quando fosse divenuto efficace il provvedimento di cessazione dal servizio, con conseguente continuità a tutti gli effetti del rapporto di lavoro. In tal modo veniva immediatamente reintegrato nel diritto allo stipendio il personale che non avesse ritenuto o potuto economicamente sopportare il differimento della decorrenza della pensione previsto dalla nuova normativa.

Può ben dirsi quindi - conclude l'Avvocatura - che il personale che si sia avvalso della norma di prepensionamento abbia adeguatamente ponderato gli effetti economici della propria decisione, accettandoli senza riserve.

Considerato in diritto

1. -Con richiamo agli artt. 31, 36 e 37 della Costituzione, la Corte dei conti dubita della legittimità dell'art. 10, comma quinto, d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, convertito nella legge 25 marzo 1983, n. 79, e dell'art. 21, comma undicesimo, legge 27 dicembre 1983, n. 730.

Tali disposizioni sono censurate nella parte in cui dispongono che le pensioni attribuite con un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni alle dipendenti dimissionarie coniugate o con prole a carico - ai sensi del terzo comma dell'art. 42 d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092-vengano differite al termine del periodo di tempo pari all'aumento del servizio utile concesso ai fini del conseguimento dell'anzianità minima.

Tale disciplina-ad avviso del giudice a quo-contrasterebbe anzi tutto con gli artt. 31 e 37 della Costituzione, perchè elimina previsioni dirette a favorire l'adempimento da parte della donna di essenziali funzioni nella cura della famiglia e della prole.

Sarebbe inoltre violato l'art. 36, primo comma, della Costituzione perchè, durante tutto il periodo di differimento, non vengono erogati nè stipendio nè pensione, con conseguente pregiudizio economico della lavoratrice e della sua famiglia.

La questione non è fondata.

2. -Le norme impugnate non hanno fatto cadere la previsione dell'art. 42, terzo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, per il quale alla dipendente dimissionaria coniugata o con prole a carico spetta, ai fini del compimento dell'anzianità stabilita nel secondo comma, un aumento del servizio effettivo sino al massimo di cinque anni. Esse si sono limitate a differire al termine di tale periodo la corresponsione della pensione.

Il provvedimento è stato adottato nell'ambito di una iniziativa legislativa diretta ad eliminare distorsioni in materia di trattamento pensionistico nel settore pubblico. Tra l'altro, si intese per l'appunto disincentivare il ricorso ai pensionamenti anticipati, ponendo condizioni che contenessero il fenomeno, venuto con grande risalto all'attenzione dell'opinione pubblica, di percettori di trattamenti pensionistici in età ancora assai giovane.

Si provvide tuttavia a salvaguardare ogni posizione. In sede di conversione del d.l. 29 gennaio 1983, n. 17, nell'art. 10 venne inserito il comma sesto, con il quale si diede facoltà al personale che avesse presentato domanda di dimissioni dal servizio anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, con decorrenza a far tempo dalla data stessa, di chiedere, entro 60 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione, la revoca delle dimissioni, con conseguente continuità a tutti gli effetti del rapporto di lavoro.

Si consentì quindi a ciascuna dipendente di prendere la propria decisione sulla base della nuova disciplina, valutando comparativamente la convenienza di proseguire nell'attività lavorativa ovvero di dedicarsi ad un più ampio impegno familiare.

3.-Il giudice a quo insiste in modo particolare sull'asserita violazione dell'art. 31, relativo all'obbligo per la Repubblica di agevolare la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, e dell'art. 37, con riguardo all'obbligo che le condizioni di lavoro consentano l'essenziale funzione familiare della donna.

Questa Corte, però, proprio con riferimento all 'art . 42, terzo comma, d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, del cui contenuto precettivo si chiedeva l'estensione all'uomo lavoratore, ha già affermato (sentenza n. 374 del 1989) che, <in relazione ai riflessi della società in evoluzione sul rapporto di pubblico impiego ed alle relative implicazioni retributive, spetta esclusivamente al legislatore determinarne contenuti e limiti di incidenza o, per quanto riguarda la fattispecie, l'opportunità di abrogare o modificare la norma impugnata>.

La stessa sentenza, richiamandosi alla precedente n. 252 del 1983, ha rilevato altresì che l'art. 31, primo comma, si riferisce soltanto alle situazioni legate ad un rapporto di necessità con la formazione della famiglia e con l'adempimento dei compiti relativi, e non anche quindi alle situazioni ad incidenza indiretta su di essi. A ben guardare, dunque, <spetta alla discrezionalità del legislatore, con la salvaguardia dei valori costituzionali, apprestare le misure atte ad agevolare l'adempimento, da parte dei coniugi, dei loro compiti nella famiglia>.

4. - Rilievi analoghi vanno fatti per quanto concerne il richiamo all'art. 36 Cost. ed al pregiudizio economico derivante alla lavoratrice pensionata dalla mancata erogazione, durante il periodo di differimento, sia dello stipendio che della pensione.

Con sentenza n. 531 del 1988 questa Corte, richiamando vari altri precedenti, ha già statuito che la determinazione della base retributiva, utile ai fini del trattamento di quiescenza, appartiene alla discrezionalità del legislatore. É dunque devoluto a tale discrezionalità disporre in merito ai modi e alla misura del trattamento.

Del potere di apprezzamento rimessogli il legislatore ha fatto un uso che non si presta a censure, nè in riferimento agli artt. 31 e 37, nè in riferimento all'art. 36 della Costituzione. Va anzi sottolineato che, di fronte all'emergere di nuove esigenze e di nuovi problemi, si è ricercato un contemperamento, il più possibile equilibrato.

Mantenendo il particolare beneficio riconosciuto alla donna lavoratrice dal terzo comma dell'art. 42 d.P.R. n. 1092 del 1973, e quindi l'anticipata maturazione del diritto alla pensione, si è avuto riguardo al maggiore impegno che normalmente si richiede alla donna nell'ambito familiare.

Differendo peraltro l'erogazione dell'assegno previdenziale, si è comprensibilmente inteso contrastare quel fenomeno del precoce e talvolta precocissimo pensionamento che era stato oggetto di molte e preoccupate considerazioni critiche. In ogni caso, si è avuta cura di non pregiudicare le posizioni acquisite e di consentire a ciascuna dipendente di valutare la propria convenienza, in relazione a quanto dettato dalla nuova disciplina.

La questione di legittimità costituzionale proposta dalla Corte dei conti va dunque dichiarata non fondata.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma quinto, del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17 (Misure per il contenimento del costo del lavoro e per favorire l'occupazione) convertito con modificazioni nella legge 25 marzo 1983, n. 79, e dell'art. 21, comma undicesimo, della legge 27 dicembre 1983, n. 730 (Legge finanziaria 1984), sollevata, in riferimento agli artt. 31, 36 e 37 della Costituzione, dalla Corte dei conti, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26/06/90.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Gabriele PESCATORE, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 13/07/90.